Care socie, cari soci,
il succedersi delle feste dipende da calendari basati sui moti celesti. Essi non sono sottoposti al capriccio umano. Sole, luna e stelle ci accomunano, o almeno così sembra. È sapienza antica affermare che tutti abitiamo sotto lo stesso cielo. Eppure la misura del tempo differisce da luogo a luogo, da civiltà a civiltà. Al calendario gregoriano, che si è imposto in Occidente, e, di riflesso, nel mondo intero, sfuggono tuttora molti terreni del sacro. Il papa e i gesuiti del Collegio romano hanno conquistato il nostro pianeta senza occupare tutti gli spazi di Dio. Ogni religione continua a misurare il tempo a modo suo. Capita perciò che le feste degli uni cadano quando altri vivono un tempo normale e viceversa. Non a caso nelle società multireligiose si moltiplicano i calendari che indicano le ricorrenze delle varie comunità.

In spazi fattisi sempre più condivisi le differenze risultano più percepibili. Non è scoperta di oggi. Un non ebreo disse a rav Yehoshùa‘ ben Qorchah (un maestro d’Israele vissuto nel secondo secolo della nostra era): «noi abbiamo le nostre feste e voi le vostre; quando voi vi rallegrate noi non lo facciamo e allorché noi siamo lieti voi non lo siete; non esiste mai davvero un’occasione in cui tutti possiamo rallegrarci insieme?». Il rabbi rispose che ciò avveniva quando cadeva la pioggia. Nelle zone aride l'acqua discesa dal cielo produce una gioia condivisa da ogni creatura.

Nell’emisfero settentrionale, nell’ultimo scorcio del mese di dicembre, qualcosa del genere vale anche per il lento, ma costante, crescere della luce. Quando si sa di aver toccato il fondo non si può che risalire. A poco a poco il buio retrocede. Tuttavia soltanto nei tempi fissi della natura ci è dato di sapere con certezza che si è giunti davvero al punto più basso, in quelli mobili della vita individuale, economica, sociale e politica non si può mai escludere in modo definitivo che non ci siano ulteriori gradini da scendere.

Ognuno, allora, ha le proprie feste e le proprie condizioni di vita e sono soltanto i tempi del cielo ad accomunarci? Si è dunque costretti a festeggiare solo a casa propria? È utopia confidare in qualcosa di più? È solo arroganza pretendere che le proprie celebrazioni siano dotate di un respiro universale? Negli ultimi anni si è sempre più affermata la pratica di condividere, in maniera cordiale, le feste altrui. La partecipazione alla gioia degli altri ci accomuna più dei moti della terra o della luna. Tuttavia la condivisione sarebbe davvero piena solo se fosse all’altezza del paradosso di ospitare anche la pretesa di universalità insita, il più delle volte, nella festa altrui. Per alludere a un’espressione di Simone Weil, occorrerebbe partecipare alle solennità altrui partendo dalla convinzione che ogni religione è l’unica vera: una sfida posta al di là delle nostre attuali forze spirituali.

Per il credente in Gesù Cristo non è sufficiente affidarsi ai tempi del creato, per lui è necessario guardare ai tempi di Dio in virtù dei quali l’eterno si è rivestito di carne e sangue. Se il Natale fosse solo festa dei cristiani l’incarnazione del Figlio sarebbe ricondotta all’ambito angusto dell’identità confessionale: noi abbiamo le nostre feste, voi le vostre. Il Verbo venuto a porre la propria tenda tra noi (Gv 1,14) esige di essere accolto con un respiro aperto a tutti, senza imporsi a nessuno. Ciò e non altro significa la possibilità che ci è data di ospitarlo o rifiutarlo. Leggendo e rileggendo il Prologo del quarto Vangelo si coglie che i versetti iniziali riferiti alla Parola che era presso Dio vanno compresi alla luce del racconto di quanto viene dopo. Il messaggio che ci è comunicato è incentrato sulla rivelazione massima secondo cui il Verbo, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose (Gv 1, 3), può essere accolto, e quindi anche rifiutato, dalle sue creature. Si tratta di un’alternativa che ci comunica una realtà abissale: chi è all’inizio di tutto, lungi dall’imporre alle proprie creature di essere riconosciuto, chiede loro di venir ospitato esponendosi, di conseguenza, al rischio di restare fuori dall’uscio. La Parola che crea ogni cosa, nulla impone. Essa condivide la sorte di chi è costretto a dire: ero forestiero e non mi avete ospitato (cfr. Mt 25, 42).

La massima libertà esercitata da Dio è stata di uscire da se stesso per farsi creatura. Quella scelta divina ci invita a uscire a nostra volta da noi stessi per condividere la vita degli altri; proprio in ciò la testimonianza di fede in Gesù Cristo si fa massima. L’omogeneo e settentrionale crescere della luce successiva al solstizio d’inverno non ci basta né per vivere il Natale né per presentarlo come simbolo universale (custodito dalla fede di alcuni e negato da quella di altri ) dell’umanità di Dio. Per attingere alle profondità del Natale occorre viverlo come fonte di un divino accoglimento dell’umanità dell’altro che ci incalza a essere a nostra volta accoglienti. Per quanto il senso più profondo del Natale sia custodito solo dalla fede di alcuni, si è chiamati a renderlo, nella mitezza, una festa a favore di tutti.

Un fraterno abbraccio e un grande augurio
Piero