Venerdi 26 luglio - La povertà dei ricchi e la ricchezza dei poveri

Alla preghiera mattutina di venerdì 26 luglio della sessione di formazione ecumenica del Sae in corso ad Assisi sono state ricordate con un minuto di silenzio le oltre 150 vittime del nuovo disastro del Mediterraneo avvenuto nelle acque attorno alla Libia. «Mentre noi stiamo pregando, dialogando, discutendo, ancora sono scomparse delle vite, vite che non potremo mai più incontrare», ha detto Erica Sfredda, membro del gruppo liturgico interconfessionale che prepara e guida i momenti di celebrazione. Silenzio e invocazione perché questi fatti non accadano più, perché le politiche cambino, perché le persone, le comunità religiosa e civile non siano sorde al grido degli oppressi e si facciano promotrici di un’altra via e di nuovi stili di vita.

Anche la sera precedente, che ha ospitato il culto di Santa Cena, la pastora Ulrike Jourdan, che ha presieduto il culto con il pastore e marito William, nella predicazione ha ricordato le persone che ogni giorno devono guardare la morte in faccia. Commentando il brano della vedova di Sarepta (1Re 17), Jourdan ha detto: «Dio ha visto la donna e suo figlio a Sarepta. Dio vede tutte queste madri e tutti questi padri che affrontano l’incubo del mare o del deserto per trovare speranza. Dio vede anche ciò che noi non vogliamo vedere. Dio vede anche ciò che noi preferiremmo cancellare dalla nostra coscienza». La donna straniera che ha condiviso con il profeta Elia le ultime manciate di farina e le ultime gocce di olio rimaste è segno di una generosità anche in situazione disperata. Generosità che si trasforma in vita per tutti. La pastora ha dato testimonianza di quanto gli immigrati ghanesi nella città di Vicenza condividono il loro poco per i nuovi arrivati. «Non ho mai sentito di qualcuno che fosse finito in strada. Forse si ha poco, ma si condivide quel poco. Tutti noi possiamo aprire le nostre mani, come ha fatto la donna di Sarepta, sapendo che in questo gesto non si dà solamente, ma si riceve».

All’insegna della condivisione, ma anche di tanti altri significati, è il brano biblico sulla storia di Rut nel primo libro dei Re che ha siglato la preghiera mattutina di venerdì, commentata dal pastore avventista Davide Romano. Rut, anche dopo essere rimasta vedova, vuole condividere il destino della suocera Noemi, rimasta anche lei vedova e privata di due figli. Di origine moabita, etnia ritenuta maledetta dagli ebrei, sceglie di andare con Noemi nella Giudea, patria della suocera, per non abbandonarla, e così assume quel popolo e il suo Dio. Il libro di Rut – ha detto Davide Romano – è un libro di universalismo di popoli e di fedi; un libro di migrazione, dove chi emigra cerca di sopravvivere; un libro della restituzione, perché ai poveri è dato ciò che è stato loro tolto; della Provvidenza, perché Dio non dimentica il povero; di appartenenza non nel senso etnico ma nel senso di una reinvenzione dell’appartenenza: Rut non appartiene al popolo ebraico ma sceglie di appartenervi per “simpatia” con la suocera. E sarà annoverata tra le antenate di Gesù perché sposando Booz e generando Obed entrerà nella genealogia messianica. «In sede ecumenica – ha concluso il pastore – è bene parlare di appartenenza come scelta che non significa ridurre l’appartenenza di partenza ma collocarla in un contesto più ampio di fraternità più grande».

Nel pomeriggio la tavola rotonda condotta da Riccardo Maccioni, caporedattore di Avvenire, con testimonianze ecumeniche sulla “povertà dei ricchi e la ricchezza dei poveri”. Al termine la preghiera ecumenica di accoglienza dello Shabbat.