Care soci, cari soci,
dopo il convegno di Torre Pellice e alla vigilia di Pentecoste desidero farvi giungere un pensiero.  Alcuni temi che, in un primo momento avevo in animo di affrontare, li proporrò - a Dio piacendo - nell'introduzione alla Sessione di Santa Maria degli Angeli; altri prenderanno forma nei mesi successivi. Mi riferisco soprattutto al processo di revisione dello statuto e ancor di più a quel che questa operazione, al di là delle formulazioni specifiche, vuol significare per la vita della nostra associazione. Con l'aiuto di tutti ci è chiesto di portare a  conclusione un processo aperto ormai da tempo. Colto sotto questa angolatura, concludere significa, in realtà, proseguire con più consapevolezza e slancio il cammino; senza con questo negare le evidenti difficoltà che ci è domandato di affrontare   in sede sia locale sia nazionale.
   Sulla tavola dei relatori nella sala sinodale di Torre Pellice c'erano fiori di carta fabbricati da mani molto giovani; su ciascuno di  essi vi era scritto il nome di un maestro o di una maestra di ecumenismo piemontesi che ci hanno preceduto. Sarebbe illusorio ritenere che in un futuro non remoto altri fiori si aggiungeranno a quelli e non verranno solo dal Piemonte. Cosa fare? Fino a quando ci saranno mani giovani che scriveranno e ricorderanno ci sarà dato ancora ripetere il biblico detto «di generazione in generazione». Parola antica che coglie l'entrata e l'uscita dalla scena del mondo non come un inutile passaggio, ma come luogo in cui si  prolungano la promessa e l'impegno. Non è scontato che ci sia dato sempre ripeterlo. Tuttavia a Pentecoste si è chiamati a parlare anche un linguaggio aperto alla novità. È da quel giorno infatti che lo Spirito consente di vivere la gioia di una comunicazione che chiama all'unità proprio perché accoglie nel suo seno la pluralità.
  Là a Gerusalemme era Pentecoste, vale a dire era il giorno in cui cadeva la festa delle Settimane (Shavu‛ot) (Lv 23,15-22), una delle tre ricorrenze annuali in cui si saliva al tempio (cfr. Es 34,22-23). Il senso primordiale della festa era agricolo, connesso alla gioia della mietitura; ad esso si era aggiunto - in un'epoca difficile da precisare - il senso memoriale del dono della Legge (Torah) rivelata dal Signore sul monte Sinai. Il monte «era tutto fumante, perché il Signore era sceso su di esso nel fuoco» (Es 19,18). Proprio in quel giorno lo Spirito scese sui discepoli in lingue come di fuoco.
   Secondo il Vangelo di Luca, Gesù fu annunciato da Giovanni Battista come colui che avrebbe battezzato «in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,16). Secondo questa prospettiva il battesimo doveva presentarsi come una forma di discriminazione tra giusti e malvagi: «Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con fuoco inestinguibile» (Lc  3,17). Quello avvenuto a Pentecoste fu invece un battesimo che si attuò per mezzo della pasqua e dell'annuncio e fu suscitatore di comunione, non di discriminazione.
   Subito prima di essere elevato in cielo, Gesù aveva promesso agli apostoli un imminente battesimo nello Spirito senza parlare di fuoco (At 1,5). Ora, nel giorno di Pentecoste, lo Spirito, che è soffio e vento, scende nel fuoco, assumendo però non l'aspetto incandescente di chi brucia ogni malvagità, bensì quello comunicante di «lingue come di fuoco». Il battesimo degli apostoli è nella lingua, nel fuoco della parola che comunica l'evangelo.
   Le «lingue come di fuoco» manifestano subito il loro potere nel miracolo delle lingue, udite e comprese da tutti coloro che, in quanto pellegrini saliti a Gerusalemme, sapevano che proprio da quella città doveva uscire la parola di Dio (cfr. Is 2,2-5; Mi 4,1-5). Il miracolo dell'unica comprensione, avvenuta senza intaccare la pluralità degli idiomi, è ben diverso dal carisma di proferire arcani linguaggi diffuso nelle primitive comunità dei credenti (cfr. At 10,46; 19,6). Il giorno di Pentecoste si parlò una lingua compresa dagli uomini, affinché essi ascoltassero e credessero (cfr. Rm 10,14). Parlare agli uomini per opera dello Spirito è, ci ricorda Paolo, realtà più grande che parlare a Dio attraverso arcane parole: «Chi (...) parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende. Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto» (1Cor 14,2-3).
   «È parso bene  allo Spirito santo e a noi» è il versetto biblico scelto per la nostra sessione - chi non l'abbia già fatto è invitato a iscriversi per tempo anche per agevolare un lavoro di segreteria affidato alla generosità di un volontariato fedele, in tutto e per tutto, al suo nome. L'augurio da rivolgere alle Chiese è che il «noi», lungi dal catturare dentro di sé lo Spirito, sia un modo consapevole di porsi al suo servizio.  Un augurio che il SAE può rivolgere anche a se stesso, in questo caso però non è dato farlo senza parlare il linguaggio della responsabilità.
Un fraterno saluto
Piero