Care socie e cari soci,
come tutti, siamo giunti impreparati a questi giorni. È un periodo inatteso, improvviso. Un tempo drammatico, sospeso per tanti, concitato e pieno di lavoro per molti, colmo di stenti, sofferenza e morte per troppi. Non è l'epoca più tragica della storia. Tra la primavera del 1918 e il 1919 la pandemia di spagnola mieteva, in ogni angolo del pianeta, vittime molto, molto superiori alle attuali. Per l'Italia, che allora aveva circa 35 milioni di abitanti, si parla di cifre attorno al mezzo milione di morti (non ci sono statistiche precise). Fatto inedito la malattia colpì soprattutto persone tra i 25 e 40 anni. Quando scoppiò la spagnola c'era ancora la guerra. In Italia i morti tra militari e civili furono oltre un milione. Sappiamo quali furono le conseguenze per il nostro Paese; non ci volle molto tempo perché sopraggiungesse il '22.

Se ricordiamo tutto ciò non è per imboccare la via della falsa consolazione che afferma: c'è chi sta (o è stato) peggio. Le ragioni sono altre. Se si vuole comprendere questo nostro tempo come un «segno» bisogna coglierlo nella sua specificità. Essa non sta nella sua tragicità; la storia umana è colma di orrori. Tanto meno lo si trova nel porsi la domanda su «dove è Dio in tutto ciò?»; un interrogativo che l'umanità è nelle condizioni di sollevare da sempre. Quanto è peculiare alla situazione attuale è di essere immersi nella prima pandemia dell'epoca della globalizzazione. Lo è soprattutto per la modalità di diffusione del contagio e ancor di più delle notizie che lo riguardano, per le misure assunte per contrastarlo (separazione sociale, sistemi sanitari), per le ripercussioni economico-finanziare innescate dal covid-19. Siamo chiusi nelle nostre case mentre il mondo invade i nostri appartamenti. Siamo separati gli uni dagli altri e comunichiamo di continuo. Dipendiamo più che mai dall'energia elettrica. Le mobilità e le informazioni che sembravano due facce della stessa medaglia, si sono divaricate. Può essere, come molti affermano, che il cambiamento climatico e l'inquinamento svolgano un loro ruolo; tuttavia in queste settimane la società umana e i tempi propri della natura animale e vegetale viaggiano in parallelo. La primavera irrompe, i fiori sbocciano, i prati rinverdiscono, gli animali non domestici vivono come sempre. Nelle nostre città i colombi non sono soggetti né al coronavirus né a restrizioni. La grande, giusta preoccupazione per l'ambiente è entrata anch'essa in una fase di sospensione. Pure in questa situazione inedita vi sono però delle costanti: come sempre, sono i poveri a pagare il prezzo più alto. Sono soltanto piccole pennellate di un quadro molto più fitto di figure che ci sfuggono.

In questo contesto vi sono vicende che riguardano donne e uomini nella irripetibilità del loro vivere e per tanti, troppi, del loro morire. Storie di solitudine, di solidarietà, di aiuto, di abbandono, di preoccupazioni, di paura. Ognuno di noi ne sa qualcuna; Dio, per chi è nella fede, le conosce tutte, una per una.

Le Chiese sono state colte alla sprovvista come tutti. I culti sono sospesi, o attuati in maniera monca, per decreto ministeriale. È una misura che non ha precedenti. Le comunità dei credenti non vivono in spazi privilegiati. Se ciò avvenisse sarebbe un'infedeltà nei confronti sia di Dio sia delle creature umane. Le Chiese sono chiamate a testimoniare una presenza non riconducibile a quella della solidarietà e dell'aiuto. Queste ultime azioni sono indispensabili, ma lo sono (o lo dovrebbero essere) in quanto comuni a tutti gli esseri umani. Moltissimi, a iniziare dai medici e dagli infermieri, operano in tal senso e il ringraziamento nei loro confronti è corale.  Quanto è chiesto alle Chiese è di testimoniare una presenza invisibile alternativa a quella, anch'essa drammaticamente invisibile (ma in questo caso verificabile), propria del virus. Nella loro comunicazione le Chiese, come tutti, si affidano ai media e ai social (che adesso non sono però più usati per convocare gente). Pure attraverso questi mezzi cercano di trasmettere il senso di una “presenza altra” espressa dalla Parola, dalla preghiera e dall'appartenenza a una comunità autentica e vitale anche nella separazione fisica.

Pure il SAE si trova in una situazione che ci accomuna nella distanza. Ci affidiamo alla via elettronica per scambiarci messaggi; al telefono perché ci giungano voci e immagini. Rispettiamo come tutti le norme che ci consegnano al distanziamento sociale. Nella riunione del CE, avvenuta via skype sabato 28 marzo, si è deciso l'ormai inevitabile annullamento del convegno di primavera di Camaldoli. Non ci sono gli estremi né per effettuarlo, né per rimandarlo a una data plausibile. Per la sessione di fine luglio, ormai completa nel suo programma, i tempi non ci consentono ancora di prendere una decisione ponderata. Lo faremo entro la fine di aprile. Abbiamo comunque ipotizzato varie eventualità; vi sapremo dire, anche dopo aver consultato i responsabili gruppi locali. Abbiamo deciso di attivare, a breve, una newsletter intitolata «2020 una Pasqua diversa». Chiederemo a ebrei, cattolici, protestanti, ortodossi di comunicarci come vivono in un tempo inedito una festa tanto centrale per le rispettive comunità. Cercheremo di avviare forme di comunicazione tra noi, pensando soprattutto a chi vive nelle zone più colpite, per ravvivare i legami anche attraverso una informazione partecipe. Soprattutto pregheremo gli uni per gli altri e per il “ mondo abitato” (è il senso primo della parole «ecumene») nell'attesa che ritorni del tempo dei volti e degli abbracci, del lavoro e dell'impegno per ricostruire certo, ma anche e soprattutto per cambiare, senza dimenticare, né ora né allora, chi è stato “sommerso”.

Oggi una forma liturgica, nel silenzio di tante celebrazioni, suona particolarmente vera: «il Signore sia con voi».

Un fraterno e sororale saluto
Anna, Daniela, Donatella, Piero, Stefano