Si è conclusa sabato ad Assisi la 59a sessione di formazione ecumenica del Sae “Chiese inclusive per donne nuove e uomini nuovi. Edificati insieme per diventare dimora di Dio (Ef 2,22). Due relazioni, una della teologa valdese Letizia Tomassone e una del teologo cattolico Luigi Renna, vescovo di Catania, dal titolo “Per un futuro diverso”, hanno preceduto le conclusioni offerte dalla presidente Erica Sfredda e da Simone Morandini, membro del Comitato esecutivo nelle quali è emerso che due sono state le parole guida: interconfessionalità e intergenerazionalità. Altra dimensione importante è stata la laicità.

La sessione è stata un crescendo di partecipazione sia nei momenti delle celebrazioni, di grande ricchezza spirituale e umana, sia nelle plenarie in sala, che hanno suscitato molti interventi e domande, sia negli otto laboratori nei quali sono stati approfonditi e rielaborati i sottotemi della sessione. Ogni laboratorio ha avuto una conduzione plurale per genere e confessione che ha arricchito l’elaborazione della questione di genere e dell’inclusività delle chiese. Una novità di questa edizione è stato il laboratorio sulla spiritualità e il corpo nelle danze ebraiche, molto affollato, che ha proposto un modo altro per comunicare e condividere l’esperienza di fede. Nella sessione è stato basilare il contributo del Coordinamento teologhe italiane, che hanno partecipato a quattro tavole rotonde e hanno coordinato insieme ad altre e altri cinque gruppi. Le giornate sono iniziate con la preghiera preparata con grande cura e armonia dal gruppo di animazione preghiera e liturgia - Luca Baratto, Alessandro Martinelli, Margherita Bertinat, Elda Possamai - e con meditazioni bibliche iniziate con quella ebraica - Marco Cassuto Morselli, presidente della Federazione delle Amicizie ebraico-cristiane in Italia - e proseguite con voci cristiane: avventista -Saverio Scuccimarri-, ortodossa - Traian Valdman -, cattolica - Maria Soave Buscemi-. Una mattina la meditazione non è avvenuta in plenaria ma in otto gruppi dove tutte e tutti hanno contribuito alla riflessione sul testo biblico proposto.

Alla vigilia della partenza i partecipanti, tra i quali diverse e diversi giovani e neofiti, hanno espresso in assemblea molte risonanze: «altissimo livello delle relazioni e del dibattito», «diversità e disponibilità al confronto», «grazia di passare all’ecumenismo vissuto nella carne», «competenza, qualità, franchezza», «occasione di rinnovamento», «liturgie ricche e sobrie».

Nell’ultima tavola rotonda, secondo monsignor Luigi Renna un futuro diverso «si sente nell’aria da tempo, è frutto di un processo che il Concilio Vaticano II ha incoraggiato nella Chiesa cattolica in quanto a consapevolezza, ricerca di vie nuove, ricchezza di temi che forse nel passato si aveva un po’ di timore a palesare». Di questo tempo ha messo in rilievo la presenza delle donne, a partire dalla presenza delle ventitré uditrici al Vaticano II, presenza che «dal punto di vista culturale è emersa prima nell’associazionismo cattolico e nell’Università cattolica, e poi ha assunto forme sempre più chiare». Lo strumento sinodale, consegnato alla Chiesa cattolica da Paolo VI, è stato esteso da Francesco a “non vescovi”, «un passaggio decisivo, che come una buona prassi, potrà essere assunta e portata a un arricchimento ulteriore».

Di fronte a questo strumento, il vescovo di Catania si chiede qual è la sensibilità riguardo al tema dell’inclusività di uomini nuovi e donne nuove emersa nella consultazione che ha preceduto i due prossimi sinodi. E ribalta la frase: «solo uomini e donne attenti al novum evangelico e ai segni dei tempi costituiscono una Chiesa inclusiva, perché il mistero della Chiesa è di per sé inclusivo, ma noi entriamo in questa dimensione nella misura in cui ci sentiamo popolo di Dio e siamo “disarmati” davanti al sensus fidei che emerge nell’ascolto e nel discernimento, così come lo furono gli apostoli a Gerusalemme quando si decise cosa era necessario per essere nuovi, discepoli di Cristo rispetto alla tradizione dei padri.

Rispetto ai temi dell’inclusività uomo-donna nella chiesa e dell’accoglienza delle persone LGBTQ+, sono emerse molte richieste nel Documento della Tappa Continentale che ha assunto l’immagine biblica inclusiva della tenda, ricavata dal libro di Isaia: “Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora, senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti”. Dice il documento citato da Renna: «Tra coloro che chiedono un dialogo più incisivo ed accogliente troviamo anche quanti per diverse ragioni avvertono una tensione tra l’appartenenza alla Chiesa e le proprie relazioni affettive, come ad esempio: i divorziati risposati, genitori single, le persone che vivono in un matrimonio poligamico, le persone LGBTQ, ecc. Le sintesi mostrano come questa richiesta di accoglienza interpelli molte Chiese locali».

La situazione è complessa ma ha già trovato alcune risposte, ha rilevato monsignor Renna, secondo il quale bisogna fare incontrare studi accademici, magistero e pastorale. Il mancato aggiornamento magisteriale rispetto alle acquisizioni teologiche degli ultimi cinquant’anni provoca esitazioni nel dialogo e lacerazioni di fronte a richieste come la benedizione delle coppie omoaffettive. Di fronte a sensibilità molto diverse tra loro il teologo vede la necessità che «il discernimento sia coraggioso e lungimirante».

La teologa valdese Letizia Tomassone ha esordito definendo l’uguaglianza di genere come il valore caratterizzante le chiese storiche della Riforma che si basa sulla comprensione del sacerdozio universale di credenti per cui non si riconosce un presbiterato ma ministeri che accolgono laici e laiche. Su un altro piano sono le chiese evangelicali il cui discorso sulla chiesa non tiene conto di una visione di genere. «Chi parla del futuro della chiesa sono giovani leader bianchi, maschi e vestiti in modo elegante, a rappresentare un mondo che forse si sta sfaldando ma resiste potentemente ancorato ai suoi privilegi».

Tomassone rileva ancora oggi una fatica nelle Chiese a definire Dio con nomi femminili. Questo travisa la tradizione biblica. A una dimensione piramidale che ingessa la liturgia «basterebbe sostituire la dimensione trinitaria insita nella Tradizione che è stata ripresa nelle nostre liturgie ecumeniche».

Secondo la teologa di fronte al trinceramento delle chiese dietro l’identità maschile di leader, padri della chiesa e teologi, un primo passo da fare sarebbe cambiare le metafore e le immagini del divino. «Il kyriarcato è una gerarchia e privilegio che a cascata crea una serie di dualismi in cui il secondo termine è sempre inferiore al primo: sessismo, razzismo, differenze tra religioni. La pratica dell’empowerment ci spinge a riconoscere la soggettualità di coloro che prima non erano previsti. Tenendo presente che non si tratta qui di mettere al centro dei soggetti autosufficienti, come nella narrazione della modernità, ma soggetti che si costituiscono in una relazione di fede, di fronte a un Tu che li chiama fuori da sé, responsabili e liberi ma al tempo stesso dipendenti perché dentro una relazione».

Nella chiesa del futuro o del presente alle donne interessa, ha detto la teologa, un chiesa che sia inclusiva e lasci spazio e voce a chi sta sulla soglia; che non abbia definizioni e risposte già pronte sui temi etici; che abbia una carica profetica tale da destrutturare il patriarcato e la sua architettura ecclesiale; che promuova un’antropologia dell’interconnessione e dell’interdipendenza, della tenerezza e della trasformazione; che sappia vedere le intersezioni fra genere, identità, cultura, classe sociale e ne faccia la base per pratiche trasformative della chiesa e della società.

Oggi, secondo Tomassone, l’unico modo di dare ancora rilevanza trasformativa alla presenza femminile, è l’ermeneutica femminista dei testi, delle storie e delle situazioni. Ossia uno sguardo di genere che può essere sanamente praticato anche dagli uomini. Mostrando la foto di una donna india che fa un gesto di guarigione/benedizione nei confronti del papa, in Canada, la teologa ha osservato: «Questo gesto già le appartiene, per noi si tratta di inventare una tradizione, là dove alle donne non è permesso fare gesti di benedizione». Sempre dai popoli indigeni viene un messaggio di umiltà e interconnessione con la natura della quale siamo parte integrante e che ci insegna dei paradigmi di relazione. «Relazioni in cui la pelle, il toccarsi, la vulnerabilità reciproca e comunque la possibilità di ferire i corpi o di accarezzarli ci rimandano a relazioni di vita contrapposte a relazioni armate. La pelle è immagine di questa relazione, in cui Dio si fa amica e amante».