Vladimir Zelinskij
L'epidemia e l'Ortodossia

L’Ortodossia è la religione del tempio. La sua fede, anche nella sua intimità personale e nella sua invisibilità mistica è legata alle cose visibili: riti, icone, sacramenti. La fede crea il suo ambiente, perfino il colore che decora la chiesa stessa: “vestita” in nero durante la Quaresima, in rosso per il periodo pasquale, in verde per la Pentecoste, in giallo per il tempo ordinario. Nel giorno della Epifania il sacerdote benedice l’acqua santa che i fedeli conservano a casa per tutto l’anno, poiché quel rito non si ripete ed insieme all’acqua tutta la creazione viene benedetta. Le stelle, il sole, la luna, gli abissi, le sorgenti, la luce fanno parte della “domus salutis” e la Chiesa ortodossa canta la gloria all’opera di Dio riempita dallo Spirito. Soprattutto la Pasqua, dopo un lungo digiuno assai severo che dura per quasi due mesi, arriva il tempo del banchetto spirituale, ma anche reale, fisico, gastronomico e quella golosità, con il cibo abbondante e benedetto, è inseparabile dalla festa. Insomma, la fede ortodossa è la fede che, oltre la preghiera, s’esprime visibilmente anche tramite la materia consacrata in cui Dio si manifesta, come diceva San Giovanni Damasceno. Anzi, è la fede toccata con la mano. L’epidemia però ha messo un confine, anzi un muro, tra la fede nel tempio e la fede nel cuore.
Non tutti hanno accettato la dittatura di quel muro. In Russia, per esempio, nel mondo clericale sono apparsi i cosiddetti “covid-dissidenti” che affermavano ed affermano ancora che non si possa prendere alcuna malattia dalle cose sacre, soprattutto dalla comunione, dal calice condiviso. Colui che parla delle precauzioni da prendersi non ha che una fede debole. Nonostante la forte “non-raccomandazione” del patriarca Kirill, alcuni di questi sacerdoti e vescovi hanno deciso e proclamato apertamente: celebreremo lo stesso la Pasqua del Signore, faremo come il solito. E hanno fatto così con la celebrazione notturna, in chiese pienissime di fedeli, i quali di solito hanno fiducia nei loro pastori. Con la comunione di massa, usando, secondo la tradizione, solo un cucchiaino per le centinaia di comunicanti perché il pensiero stesso del pericolo dell’infezione durante la comunione è già peccaminoso. La maggior parte di questi ecclesiastici oggi sono malati, alcuni sono già morti. Questa Pasqua ha aggiunto un po’ di sobrietà alla nostra fede, ha tolto un po’ dell’elemento magico. Non per tutti, però. Tuttavia, questa triste lezione rimarrà per lungo tempo. Anche per noi.
L’epidemia, nella quale noi bresciani siamo al centro, ha un suo messaggio per tutti i credenti. Siamo stati costretti a rimanere a casa. Siamo stati separati dai nostri fedeli, dalle immagini, dai calici, dai contatti quotidiani con tante cose alle quali eravamo abituati. Ma anche la casa e la reclusione possono diventare portatrici della parola – che noi dobbiamo saper leggere. Ridimensionati nelle nostre celle interiori, intime, possiamo riscoprire il nucleo della nostra fede, il gusto della preghiera nonché la nostra solidarietà, anche a distanza, con la gente delle nostre parrocchie; ma anche con i malati, con i morenti, con i medici, con gli infermieri di “un altro ovile”. Con tutti coloro che combattono contro la malattia e lavorano, vivono al confine tra la vita e la morte, di qualunque fede siano. La morte che ci sfiora risveglia a modo suo il senso, il sapore, il segreto della vita. Da cristiani non crediamo che tutto finirà qui sulla terra; la vita dei viventi e dei morti si trova nel deposito dell’amore di Dio e questo flagello che noi percorriamo porta proprio tale messaggio. Preghiamo tutti i giorni che questa prova finisca il più presto possibile, ma anche che la sua lezione non venga dimenticata. Сhe le frontiere della nostra solidarietà siano più larghe, che il bisogno della nostra unità sia ancora più forte.

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