Martedì 30 luglio 2013, alla Sessione di formazione del SAE. intitolata Condividere e annunciare la Parola, si è incominciata la giornata con la meditazione a gruppi del passo di Luca 4,14-21. 

Tutti e tutte hanno potuto partecipare e portare il loro apporto alla riflessione e alla preghiera.

La celebrazione serale, presieduta dal vescovo di Treviso mons. Gianfranco Gardin, è stata una liturgia eucaristica  cattolica. 

 Per un annuncio comune di Gesù Cristo era il tema della tavola rotonda, coordinata dalla presidente Marianita Montresor, e tenuta dal professor Piero Stefani, docente di Ebraismo alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, dal pastore valdese Pawel Gajewsky di Firenze e da padre Atenagora Fasiolo, prete greco ortodosso di Udine

  

“L’annuncio può essere una via di comunione?” Sì, - ha risposto Piero Stefani -  - se la centralità è riservata a Gesù Cristo. Tuttavia fin dall’origine ci sono state anche esperienze di divisione (cfr. 1 Cor 1,23-24), potevano essere di pluralità?”  Anche i Vangeli canonici frutto della stessa fede sono quattro e non uno solo. L’annuncio del Vangelo precede il battesimo, quindi l’istanza  di unità da esso espressa è la più radicale.

Una condizione perché oggi l’annuncio delle Chiese sia un segno di comunione è la piena e convinta accettazione della fine della cristianità, o - per dirla con M. D. Chenu – la fine dell’era costantiniana. Nel mondo attuale al cristianesimo, specie in Occidente, si prospetta la via di essere una minoranza critica e non settaria. Ciò comporta la piena accoglienza del pluralismo e del primato da riservarsi alla libertà di coscienza e alla dignità umane.

Queste considerazioni valgono anche per il problema della cosiddetta trasmissione della fede. Si tratta di un’espressione impropria che andrebbe riformulata nei termini di «trasmissione della possibilità di credere». La fede infatti non si trasmette, non è un’appartenenza. Tutto il messaggio biblico del resto nel presentare il modo in cui Dio si rapporta alle sue creature attesta il primato dell’accoglienza e quindi della libertà.

 

Pawel Gajewski, pastore della comunità valdese di Firenze, dopo l’incipit con l’inno cristologico del secondo capitolo della Lettera ai Filippesi, ha invitato l’uditorio a soffermarsi su alcuni  versi di Ivano Fossati. “Basterebbe una parola/E basterebbe una parola/In bocca all’angelo/Di Dio/Voglio salvarmi, voglio salvarmi/Voglio salvarmi, voglio salvarmi/”. In poche toccanti parole il cantautore genovese esprime il senso di angoscia provato dai più davanti alla situazione politica odierna. Alla denuncia segue un’invocazione costruita intorno al termine «salvezza». È raro sentire simili parole cantate fuori dell’ambito delle chiese. Fossati e la Bibbia cristiana concordano almeno su un punto: un atto salvifico e un riferimento a Dio non possono essere scissi. 

All’uomo moderno in lotta con le sue varie concezioni della vita il protestantesimo non rivolge l'invito a diventare protestante, non propone e non addita se stesso come la soluzione dei suoi problemi e delle sue incertezze, ma propone e addita un punto di riferimento che […] lo conduca a esercitare una funzione critica nei confronti di tutte le sue concezioni, trasformandolo in un uomo libero dagli elementi e dai poteri del mondo. Questo pensiero di Vittorio Su bilia esprime magistralmente il senso della predicazione e dell’impegno evangelico. 

Il pastore Gajewski ha infine riflettuto sui criteri da assumere per portare avanti un annuncio comune. Ne ha enunciati quattro: recuperare l’ebraicità di Gesù allontanandosi dal rischio di quella che ha definito la “Gesulatria”; recuperare la relazione con l’Islam; rivedere criticamente il patrimonio dogmatico senza che questo significhi buttare via cinque secoli di tradizione, ma la disponibilità di evitare un’altra idolatria e cioè l’“ecclesiolatria”; e infine l’invito a vivere una profonda spiritualità.

 

 “L’annunciare reso in greco con evangelizzare è un verbo che oggi ha perso il suo complemento oggetto, ossia annunciare la resurrezione di Cristo - ha esordito Athenagoras Fasiolo  -. Per arrivare ad un annuncio comune pertanto bisogna comprendere cosa possa voler dire annunciare, in quanto il verbo nella sua originalità non aveva un significato religioso. I cristiani lo hanno utilizzato come “parlare di Gesù a qualcuno, o meglio renderlo attento al valore che lui ha agli occhi di Dio”. L’Antico Testamento ha numerosi esempi di annuncio, basti pensare al profeta Isaia. L’evangelista Luca parla dell’annuncio dato a Maria,  “però annunciare vale solo se significa anche testimoniare, non catechizzare, ma rapportare l’annuncio con il martirio”. Ci sono stati vari tipi di annuncio-testimonianza: “i primi cristiani annunciano con il martirio; nel periodo successivo all’editto di Milano l’annuncio-testimonianza è dato dalla patristica e dalla sintesi del messaggio teologico cristiano in rapporto a concezioni cristiani non conformi.  Anche nel periodo dopo la separazione tra Oriente e Occidente, all’inizio del secondo millennio vi sono esempi di annuncio-testimonianza, pensiamo a san Tommaso d’Aquino in Occidente e Gregorio Palamas in Oriente. Esempi di annuncio-testimonianza ci sono sia durante la turcocrazia sia nel periodo dell’epoca sovietica”. Quale annuncio comune allora possono dare le Chiese oggi come testimoni della morte e risurrezione di Cristo in un mondo in cui non si combatte più Dio, ma lo si ignora? “Le chiese – ha concluso Fasiolo - al di là delle loro formulazioni teologiche e strutturali, devono trasfigurarsi riportando il messaggio cristiano dall’antropocentrismo al geocentrismo. Allora il messaggio d’amore sarà credibile e l’annuncio sarà comune”.